AGCOM
27 min readMay 15, 2017

L’INTERVENTO DEL COMMISSARIO AGCOM MARTUSCIELLO SU «REGOLE, ORIENTAMENTI ED EQUILIBRI IN INTERNET» ALL’INCONTRO ANNUALE DELL’ISTITUTO DI AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA

Milano, 15 maggio 2017

Il Commissario Agcom Antonio Martusciello è intervenuto oggi all’Incontro Annuale dello IAP, su Regole, Orientamenti ed Equilibri in Rete per affrontare i temi della pubblicità occulta online, delle fake news, e del gioco con vincite in denaro.

A) PUBBLICITÀ OCCULTA SUI SOCIAL

Il problema della qualità e della sicurezza dei contenuti rappresenta un tema rilevante soprattutto nel fenomeno online. L’esponenziale proliferazione dei contenuti in Rete ha determinato un information glut (intasamento informativo), non sempre ispirato a quei principi di trasparenza e di correttezza tipici della comunicazione commerciale tradizionale.

È evidente che l’introduzione e la diffusività delle tecnologie ha reso necessario riconsiderare nuove forme di protezione. In Rete, accanto a banner invasivi, alla carenza informativa, a condizioni contrattuali spesso oscure, una delle prime questioni che si pone è il problema della riconoscibilità del messaggio pubblicitario.

Questo principio rappresenta uno dei perni della legislazione pubblicitaria, che applicato ai mezzi classici, ha dato origine a norme precise sul posizionamento degli spot in TV.

Una riconoscibilità imposta dalle norme regolamentari, da quelle autoregolamentari, ma che è richiesta anche dall’analisi etimologica del termine pubblicità.

L’etimologia dei termini ci consente di evidenziare che il fine pubblicitario è tutt’altro che nascosto.

Notoriamente, il termine – che deriva dal francese publicité, e, a sua volta dalla parola latina publicare – si ricollega al concetto di pubblico, inteso come rendere noto un prodotto, un servizio prima sconosciuto. L’idea di una pubblicità occulta, quindi, rappresenta in sé un ossimoro, un contrasto: ciò che si intende rendere pubblico non può, al contempo, essere occulto.

Se pensiamo al termine inglese advertising, da to advertise (e prima ancora dal verbo latino advertere), è chiaro come lo scopo sia quello di avvertire il consumatore, di richiamare la sua attenzione su un prodotto. Analogamente, il termine francese reclame, la cui origine è fondata sul termine latino reclamāre, ossia ‘chiamare ad alta voce’.

Un avviso che le moderne forme pubblicitarie sembrano talvolta dimenticare, spinte da una sempre maggiore contestualizzazione del messaggio con il contenuto veicolato. I formati della pubblicità digitale, infatti, mettono a dura prova il principio di riconoscibilità.

Ed è in questo contesto che il ruolo dello IAP assume ancor più rilievo. La recente adozione della Digital Chart si pone proprio in quest’ottica, fotografando con chiarezza le forme di comunicazione digitale commerciale, con uno sguardo alle best practice in materia. Le regole di condotta indicate dallo IAP individuano proprio questi nuovi fenomeni, rivolgendosi a bloggers, youtubers, evangelists, influencers, e chiunque altro pubblichi sul web messaggi con contenuto pubblicitario.

Un impegno che può costituire un’interessante base di analisi per disciplinare tali fenomeni e ricondurli nell’ambito delle tradizionali tutele.

La riconoscibilità della comunicazione commerciale si fonda sul più ampio principio di trasparenza: dalla disciplina normativa del d.lgs. 145/07 sulla pubblicità ingannevole, a quella su cui si fonda la competenza di AGCom in materia di comunicazioni commerciali audiovisive e radiofoniche – prevista dal Tusmar all’art. 36bis e declinata nelle norme regolamentari attuative – fino a quella autoregolamentare del Codice di Autodisciplina IAP … riprendendo queste prescrizioni: la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale.

Se, quindi, i principi appaiono espressamente formulati, non altrettanto semplice è la loro applicazione concreta. Sovente, l’industria pubblicitaria ha cercato di contestualizzare con maggior efficacia messaggio e contenuto. A tal riguardo, abbiamo conosciuto, nel settore media audiovisivo, il product placement, che, sdoganato, nel 2004, dal Decreto Urbani (d. lgs. 28/2004), è stato specificatamente disciplinato nel Tusmar all’art. 40bis. In attuazione di quanto statuito dalla normativa primaria, infatti, i soggetti che intendono realizzare l’inserimento di prodotti nei programmi sono chiamati ad adottare procedure di autoregolamentazione nel rispetto di alcuni specifici criteri generali relativi all’ambito di applicazione e alle modalità di realizzazione dell’inserimento dei prodotti, quali la presenza di adeguata informativa che illustri la presenza dell’inserimento di prodotti.

Una regolazione del fenomeno certamente successiva al verificarsi dello stesso, ma che ha dettato una tutela efficace. Non solo è prevista una corretta informazione nei confronti del telespettatore, ma sono fissati dei principi cui il messaggio pubblicitario debba attenersi.

Esempi di tecnica pubblicitaria ambigua e fortemente inserita nel contesto, sono addirittura più risalenti nel tempo. Alcuni autori hanno rintracciato tali fenomeni già nella pittura (Edouard Manet nel 1882 nell’opera Un bar aux Folies Bergère, inserì sul banco, in primo piano, alcune bottiglie di birra con chiara indicazione del brand) o ancora nelle opere letterarie (Jules Verne inserì ne, Il giro del mondo in ottanta giorni, alcuni riferimenti a compagnie di trasporto dell’epoca). Non sapremo mai se questi autori agivano dietro compenso, realizzando un’antica forma di product placement, ma è chiaro che l’intento di contestualizzare il messaggio pubblicitario ha sempre caratterizzato le arti.

In chiave 2.0, l’ambiguità tra messaggio e contenuto ha conosciuto, però, la sua massima evoluzione. Lo strumento si è manifestato con sistemi di “tag” offerti dalle piattaforme social, che permettono di inserire sulle foto anche prodotti e servizi, abbinando così loghi e prodotti al mondo reale. Tali pratiche, che consentono una strumentalizzazione dell’utente, divenuto talvolta veicolatore della sponsorizzazione del prodotto, si manifestano in tutta la loro criticità quando a utilizzare questi strumenti sono personaggi notori che, tramite i propri profili social, promuovono un prodotto o un bene.

Il rischio è che, a fronte di selfie, commenti od opinioni apparentemente innocui, si celi l’endorsement di un prodotto online e si rischi di incentivare la pubblicità occulta.

Un fenomeno che inizia ad assumere una propria autonomia. Non solo attraverso l’intervento dello IAP, che nella Digital Chart ha dedicato un’intera sezione a tale tipologia pubblicitaria, ma anche in virtù dell’attenzione delle istituzioni e delle associazioni di categoria.

La fattispecie è stata recentemente oggetto di una segnalazione all’Agcm, chiamata a verificare se questa costituisca una forma di pubblicità indiretta, pur se inserita in spazi non prettamente pubblicitari – quali i profili social di alcuni personaggi famosi o blogger – tale da richiedere, al pari delle altre forme pubblicitarie, l’inserimento di una didascalia di accompagnamento che informi correttamente l’utente del carattere promozionale del messaggio.

Un problema che ovviamente non attanaglia solo il nostro Paese.

Negli Stati Uniti, ad esempio, la Federal Trade Commission è intervenuta nei confronti della società Warner Bros, colpevole di aver pagato diversi influencer statunitensi per recensire – positivamente, si intende – mediante i gameplay, un videogame prodotto dalla major. Anche in questo caso la sponsorizzazione è stata occultata, non rendendo facilmente visibile all’utente la natura commerciale delle recensioni.

Ma Oltreoceano, gli interventi sul tema sono stati mirati. La Federal Trade Commission, già nel 2009, ha stilato le prime raccomandazioni in materia (Guide Concerning the Use of Endorsements and Testimonials in Advertising). Nel 2015, poi, l’Agenzia ha prodotto sull’argomento una guida (dal titolo The FTC’s Endorsement Guides: What People Are Asking), prevedendo l’inserimento di tag specifici (#sponsored o #ad), che consentano all’utente di distinguere tra comunicazione spontanea e pubblicitaria.

In Gran Bretagna, noto è stato il caso, nel 2012, di un calciatore del Manchester United (Wayne Rooney) richiamato dall’Advertising Standards Authority per non aver reso sufficientemente chiaro il suo rapporto con un noto brand sportivo sponsorizzato in un tweet. Nel 2015, invece, la multinazionale Procter&Gamble, colpevole di non aver reso abbastanza evidente l’intento dei propri video pubblicati su Youtube, è stata costretta, dalla Advertising Standards Authority, ad aggiungere un’indicazione specifica davanti al titolo dei video.

Certo, diversamente dai paesi di civil law, gli ordinamenti di common law, in cui la produzione normativa è fondata sul principio della casistica, possono consentire un intervento legislativo più celere.

In Italia, per anni la pubblicità è stata legata esclusivamente ai mezzi di comunicazione tradizionali (radio, televisione, giornali) e, frutto di questo retaggio, la regolamentazione del fenomeno, applicato ai new media, ha stentato a trovare una propria specificità.

La qualificazione dei social, poi, ritenuti content provider e non editori, non ha consentito di applicare le regole previste per i media tradizionali.

Come AGCom, ad es., il nostro potere di vigilanza e sanzionatorio, stabilito dalla Direttiva Servizi di media audiovisivi, si applica a editori e a televisione. I social network, e il web in generale, non essendo considerati editori, restano inevitabilmente ai margini di tale controllo.

Sull’ambiente Internet, anche la recente proposta di modifica della direttiva SMAV ha manifestato una scarsa incidenza, sebbene un timido segnale si possa registrare con riferimento alle piattaforme di video-sharing (28bis della proposta di Direttiva), e più in particolare, con una sollecitazione a carico delle piattaforme online, pur se per i soli temi della tutela dei minori e della lotta all’incitazione all’odio.

Tuttavia, con l’intento di estendere l’ambito soggettivo di applicazione della direttiva, i numerosi emendamenti al testo, ora al vaglio del Parlamento europeo e del Consiglio, sembrano proporre un ampliamento applicativo avuto anche riguardo al tema delle comunicazioni commerciali di questi soggetti, eliminando, nel contempo, l’espressa esclusione dei social network. Recentemente la Commissione per la cultura e l’istruzione del Parlamento europeo ha proposto di inserire nel testo di modifica della direttiva una previsione che imponga agli Stati membri di prevedere alcune misure, a carico delle piattaforme in materia di pubblicità. In particolare, è richiesto a queste ultime di richiedere agli utenti che caricano contenuti online di dichiarare se tali contenuti contengano pubblicità, contenuti sponsorizzati o product placement. La previsione, se poi, consolidata nel testo finale, sarebbe di certo un primo strumento per debellare il fenomeno della pubblicità occulta sulle piattaforme social.

Non dimentichiamo come le piattaforme di condivisione dei video e i social network si siano appena posti in concorrenza nell’acquisizione di diritti di utilizzazione di contenuti premium televisivi, quali lo sport e le serie televisive (negli Stati Uniti Facebook e Amazon concorrono all’acquisizione dei diritti della National Football League con i network televisivi tradizionali), fattore che, contribuendo a una maggiore equiparazione delle piattaforme ai servizi di media, richiede di assicurare un level playing field per servizi digitali e, quindi, la possibilità di applicare agli OTT una serie di regole specifiche cui sono attualmente sottoposti gli operatori tradizionali.

Certo, con riferimento all’ambito pubblicitario, partendo dalla definizione originaria di pubblicità contenuta nel d.lgs. n. 74/92 – che parlava di pubblicità diffusa “in qualsiasi modo” – poi riproposta nel Codice del Consumo, si può certamente proporre un’estensione del concetto, disgiunto dal mezzo attraverso il quale essa viene diffusa.

Indubbiamente il decreto legislativo e il Codice non potevano prevedere tale tipologia di fenomeni cui l’utilizzo smodato di una nuova socialità virtuale ci ha abituato. Altrettanto indubbio è che il carattere della norma giuridica, per sua stessa natura generale e astratto, non intende disciplinare ed elencare puntualmente tutte le fattispecie illecite da debellare.

Dinanzi a fenomeni così mutevoli e in rapida espansione l’iter legislativo è destinato inevitabilmente a rincorrere l’evoluzione della società. Ciò non significa che, attraverso un’interpretazione analogica, non si possa cercare di perseguire un’ipotesi violativa come quella che stiamo analizzando.

I principi che ispirano la comunicazione commerciale, sebbene pensati per i mezzi tradizionali, ritengo che non possano trovare una differente applicazione in ragione del mezzo con cui tale comunicazione è veicolata. Questa, se occulta o ingannevole, richiede uno specifico intervento volto a evitare che le abitudini di consumo degli utenti possano essere alterate o manipolate. Anche online, quindi, la promozione deve essere chiaramente riconoscibile come tale, nel rispetto delle previsioni normative.

Posto che anche la pubblicità online debba essere ispirata ai principi a tutela del consumatore, un passaggio preliminare – nel dibattere sul tema della riconoscibilità delle comunicazioni commerciali sui social – è proprio quello di comprendere se il messaggio veicolato dall’influencer sia spinto da intenti commerciali o rientri nella libera espressione del soggetto, che, in base alla propria esperienza, può ritenere opportuno suggerire ai followers un determinato prodotto o servizio. Il limite tra le due fattispecie è spesso sottile, ma fondamentale per comprendere come trattare il fenomeno.

Si tratta di un terreno scivoloso, le cui difficoltà possono derivare anche dall’individuazione del concetto di remunerazione, talvolta non legata a un compenso di natura puramente economica, ma realizzata mediante forniture di prodotti e servizi, come in un moderno baratto.

Tale circostanza può rendere estremamente complesso inquadrare l’attività promozionale in assenza di una transazione economica che giustifichi (e “tracci”) la prestazione pubblicitaria compiuta dal personaggio notorio. Il tema concreto è dimostrare che la pubblicità sia avvenuta e sia stata anche pagata, con beni o con denaro, questo non è rilevante.

Certo in termini di marketing pubblicitario, la strategia è sicuramente vincente. Alla pervasività e diffusività delle moderne echo chambers, all’amplificata audience, capace di determinare un pubblico potenzialmente illimitato, si accompagna anche la credibilità del personaggio notorio. Ma proprio per tali ragioni, la figura dell’influencer, che detta mode e tendenze del momento, rischia di eludere le naturali difese del consumatore e le sue risorse critiche ne risultano inevitabilmente indebolite.

Pur consapevoli che l’avvento delle nuove tecnologie comunicative nella società è sempre stato accompagnato da una certa precipitosità e impreparazione, ciò non può giustificare l’assenza di un intervento regolamentare.

Certo se, come già rilevato, l’azione legislativa può qualificarsi talvolta intempestiva, in costante rincorsa verso l’evoluzione tecnologica, l’autoregolamentazione e la coregolamentazione possono, invece, rappresentare strumenti sicuramente efficaci, promossi anche a livello europeo.

In tal senso, il Parlamento europeo, pur sottolineando che è essenziale “trovare il giusto equilibrio tra misure volontarie e norme obbligatorie”, ha evidenziato come le iniziative di autoregolamentazione e coregolamentazione rappresentino un passo avanti perché permettono di “reagire con maggior prontezza agli sviluppi nel mondo in rapida evoluzione dei media”.

Ed è in questo percorso che bisogna proseguire. I codici di autodisciplina e di autoregolamentazione, risultato della formazione negoziale del diritto, consentono all’autonomia privata di divenire collettiva e funzionale all’esecuzione o all’integrazione della norma o del principio che si intende rafforzare.

In tal senso, l’esperienza maturata dall’Autorità per la pubblicità radiotelevisiva e le televendite, coniugata a quella dello IAP, possono costituire una solida base per aumentare la trasparenza sul web.

La Digital Chart si pone proprio in quest’ottica, stillando regole di condotta volte a esprimere in modo chiaro e visibile la natura commerciale che si cela dietro un selfie, un commento, un’opinione espressa da un personaggio notorio.

In tale percorso, poi, dovrebbero essere più ampiamente coinvolti gli stessi social. Non dimentichiamo che il fenomeno della pubblicità occulta può danneggiare anche gli introiti derivanti dalla pubblicità a pagamento sulle proprie piattaforme. Rendere, quindi, questi attori del mercato più consapevoli del ruolo assunto nella società, attraendoli anche in prospettiva di maggiori introiti pubblicitari, pare poter fondare una prima strategia per scongiurare i rischi della pubblicità occulta in versione social.

Un obiettivo a beneficio del consumatore, ma anche delle piattaforme, e della stessa credibilità degli strumenti offerti dalla Rete.

B) FAKE NEWS

Gli aspetti connessi alla diffusione di false notizie su Internet sono al centro di un ampio dibattito a livello internazionale, che ha coinvolto esponenti politici, istituzioni, e vertici delle società che gestiscono le piattaforme digitali.

Riprendendo le riflessioni di Freud, “non è sempre facile dire la verità, specialmente quando si deve essere brevi”. Un concetto foriero della realtà tipica del mondo iperconnesso, alla cui rapidità comunicativa ci hanno costantemente abituato i social network.

La percezione è che le notizie più attendibili siano quelle che con pochi caratteri sono in grado di circolare rapidamente.

Rapidità, fretta, superficialità ecco gli strumenti di cui si serve la disinformazione.

All’attenzione degli utenti, sempre più ridotta, consegue un minor tempo di lettura, di analisi, di ricerca delle fonti. Non a caso, diversi sono gli strumenti che consentono di conoscere il tempo previsto per la lettura di un determinato articolo: dalle app alle recenti estensioni di alcuni browser (come Readism per Chrome).

Non è il certo il web ad aver creato la disinformazione. Pur non volendo risalire troppo indietro nel tempo, pensiamo alla Donazione di Costantino, documento alto-medievale che riconosceva al papato una serie di privilegi, o ancora al Testamento di Pietro il Grande nel 1756, antica “fake” commissionata dai servizi di propaganda francesi per giustificare le ambizioni di conquista napoleoniche.

Ma l’amplificazione del fenomeno che ne è conseguita attraverso la Rete ha reso difficile contenerlo. È emblematico che in un recente articolo pubblicato sul Guardian, proprio l’inventore del world wide web, Tim Berners-Lee, annoveri tra i “trend da fermare sul web”, oltre all’immissione incontrollata di dati personali degli utenti e alla pubblicità politica, anche la diffusione di notizie false.

Le criticità evidenziate da Berners-Lee sono tra loro connesse: alla diffusione smodata dei propri dati in Rete, consegue un’attenta analisi da parte delle piattaforme che, basata su efficaci algoritmi, consente di creare i noti walled garden e di diffondere, quindi, disinformazione, con fini economici o politici. È in tal modo che si ricostruiscono, e collegano, i tre trend evidenziati dall’inventore del world wide web: privacy, fake news e pubblicità politica.

Certo la disinformazione costituisce un fenomeno già noto sui mezzi di comunicazione tradizionale, temperato, però, da una puntuale disciplina, al fine di ridurre il rischio di un possibile condizionamento sul processo di formazione dell’opinione pubblica.

Nei media classici, infatti, il robusto apparato normativo, oltre alle specifiche norme sulla par condicio, prevede l’obbligo di garantire “la presentazione veritiera dei fatti e degli avvenimenti in modo tale da garantire la libera formazione delle opinioni” e il divieto di “utilizzare metodologie e tecniche capaci di manipolare in maniera non riconoscibile allo spettatore il contenuto delle informazioni” (art. 7 del Testo unico dei media audiovisivi e radiofonici).

L’art. 3 del Tusmar individua, poi, tra i princìpi fondamentali del sistema dei servizi di media audiovisivi, l’obiettività, completezza, lealtà e imparzialità dell’informazione.

L’Autorità ha, quindi, il compito di rendere effettiva l’osservanza di questi principi attraverso le proprie funzioni di vigilanza e regolatorie, alle quali si aggiunge l’ulteriore compito di vigilare sul rispetto delle norme in materia di “rettifica” da parte delle emittenti.

Principi che si traducono nella più generale tutela del pluralismo informativo, competenza attribuita all’Autorità, in primis dalla legge istitutiva, nonché dalle discipline positive di settore, che le assegnano funzioni di regolamentazione, vigilanza e sanzione in materia di tutela del pluralismo e della concorrenza nel settore dei media audiovisivi e dell’editoria. Una vigilanza che deve potersi estendere a tutti i mezzi di comunicazione. In termini concreti, gli strumenti regolatori attribuiti all’Autorità devono essere utilizzati per garantire alla collettività un’informazione attendibile e di qualità.

In tal senso, l’intervento dell’Autorità deve collocarsi, con riferimento all’ampio mandato istituzionale a essa affidato, all’intero settore delle comunicazioni.

Ma appare evidente come l’informazione online divenga un fenomeno complesso: non si tratta, semplicemente, di passare dalla fruizione analogica a quella digitale, ma di transitare da una situazione di relativa scarsità a una situazione di “surplus” di informazione per l’utente.

Dove la stampa, la televisione e la radio offrono un “pacchetto” preconfezionato di articoli o di servizi (il giornale, il telegiornale, il giornale radio), la Rete al contrario “spacchetta” l’offerta e la riaggrega secondo le abitudini e le condivisioni dei lettori.

Certo se la scienza dell’informazione è garanzia di una verità che rende liberi, questa deve essere altrettanto disinteressata e porsi al di sopra delle parti, anche e soprattutto, in Rete. Ma in questo ambito, i poteri di intervento sono destinati a mutare a seconda della qualificazione giuridica dei diversi soggetti che distribuiscono news, articoli giornalistici e programmi e altri contenuti di informazione attraverso la Rete.

Infatti, in assenza di un intervento legislativo organico di riforma in questa materia, l’intervento dell’Autorità rischia, purtroppo, di variare in base al destinatario delle misure (testate online, fornitori di SMAV, intermediari che forniscono servizi di social network o motori di ricerca, ecc.).

Non posso, dunque, negare che l’Autorità è chiamata a un impegno significativo, al fine di sfruttare le competenze e tutti gli strumenti disponibili per la tutela del pluralismo e della correttezza dell’informazione.

Uno sforzo che già, almeno in parte, gli interventi legislativi del 2012 hanno inteso regolare.

L’inserimento nell’ambito di applicazione del Sistema Integrato delle Comunicazioni anche dei ricavi derivanti da “pubblicità on line e sulle diverse piattaforme”, operato dal legislatore del 2012, e l’estensione, nel medesimo anno, dell’obbligo di iscrizione al Registro degli Operatori della Comunicazione alle concessionarie di pubblicità “sul web e altre piattaforme digitali fisse o mobili” sembrano mostrare l’intento, a livello legislativo, di rafforzare i poteri dell’Autorità anche con riguardo al settore online.

L’Autorità, dal canto suo, si è attivamente mossa per indagare scientificamente – mediante le diverse indagini conoscitive condotte negli ultimi anni – i meccanismi di funzionamento dei fenomeni diffusi in Rete. Da ultimo, la recente Indagine conoscitiva su Piattaforme digitali e sistema dell’informazione – avviata nel 2016 e ancora in corso – sta analizzando, sotto il versante della domanda di informazione – proprio il fenomeno delle fake news.

Ma già nel 2014, in tempi ancora lontani da quelli dell’attuale dibattito, l’Autorità con l’Indagine conoscitiva sui servizi Internet e sulla pubblicità online, aveva messo in luce la struttura di funzionamento delle piattaforme di social network, e la conseguente logica di guadagno realizzata attraverso i click e i relativi introiti pubblicitari. In quella sede, erano stati evidenziati, con ancor cauto timore, i rischi in termini di qualità dell’informazione e di relativa contrazione degli investimenti in informazione primaria.

In attesa di eventuali e auspicati interventi legislativi – nazionali ed europei – che possano dotare l’Autorità di strumenti più specifici sul settore online, questa si pone certamente come sede privilegiata di incontro e discussione, al fine di stimolare un dialogo tra gli attori coinvolti: dalle piattaforme, alle federazioni rappresentative di agenzie o testate nazionali, ai fornitori di servizi di media audiovisivi, alle associazioni di categoria.

Ritengo che, nell’ottica di favorire un approccio di moral suasion e light-touch regulation, incentivare il confronto tra istituzioni e stakeholder sia utile.

Tali occasioni possono certamente essere strumento di dialogo e scambio di best practice tra i principali attori del sistema, con uno sguardo anche alle esperienze europee.

Sicuramente anche a livello sovranazionale, le esperienze non sono univoche. Alcuni Paesi europei – Francia e Belgio – hanno già pubblicato indagini che propongono soluzioni legislative e regolamentari volte ad assicurare una maggior trasparenza e neutralità nella distribuzione di contenuti attraverso piattaforme digitali che impiegano algoritmi e sistemi di machine learning e la Francia, in particolare, ha affidato funzioni di vigilanza e regolamentazione sulla trasparenza nella distribuzione di contenuti da parte delle piattaforme digitali alle autorità di regolamentazione competenti – Conseil national du numérique e Conseil supérieur de l’audiovisuel.

Lo scorso gennaio, la House of Commons britannica, invece, ha adottato di un approccio esplorativo sul fenomeno, avviando, per iniziativa del Comitato Cultura, Media e Sport, una inquire sul tema delle fake news, i cui esiti sono in fase di definizione.

Sempre, in Gran Bretagna, l’Autorità indipendente di vigilanza sull’informazione statistica (UK Statistics Authority), insieme alla Biblioteca della Camera dei Comuni e l’Economic and Social Research Council, ha instaurato, in collaborazione con la fondazione indipendente Full Fact, un rapporto di cooperazione finalizzato a porre in essere attività promozionali e di verifica della veridicità, oggettività e integrità delle notizie diffuse al pubblico (fact checking). Il progetto, denominato Need to know, muove dal presupposto che “la qualità dei dati e delle relative analisi sia essenziale per un’effettiva democrazia parlamentare”. L’informazione statistica, d’altro canto, “offre un solido fondamento per i processi decisionali e i relativi dibattiti”, cosicché si rende necessario identificare gli ambiti in cui è opportuno rafforzare il “potere dei dati” per consentire le scelte più appropriate.

In Germania, una severa normativa, già approvata dal Governo federale, è attualmente in discussione al Bundestag. Questa prevede sanzioni pecuniarie particolarmente elevate verso i gestori di piattaforme in caso di mancata rimozione di contenuti penalmente rilevanti o notizie palesemente false.

In Italia, invece, lo scorso 7 febbraio è stato presentato al Senato il disegno di legge n. 2688, recante “Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica”. La proposta, fondata su un sistema sanzionatorio di matrice penalistica, propone l’introduzione nel codice penale di articoli che prevedono sanzioni pecuniarie e che sconfina in pene detentive se le notizie false diventano mezzo per campagne di odio o minano i processi democratici.

Il DDL, inoltre, ha previsto un costante monitoraggio per i gestori delle piattaforme informatiche sui contenuti diffusi attraverso le stesse. Ma sappiamo che il monitoraggio dei contenuti è attività complessa, a cui – tra l’altro – i meri intermediari di servizi di connettività sono sottratti in virtù delle prescrizioni di cui al d. lgs. 70/2003. Questo, come noto, esclude a carico degli operatori un obbligo generale di sorveglianza.

L’intervento ha, quindi, sollevato una serie di critiche, rinvenendo in esso un possibile strumento censorio. Un soggetto privato non può, infatti, essere investito di un controllo sui contenuti, senza inevitabilmente limitare e restringere la libertà degli utenti.

La registrazione in Tribunale dei gestori dei siti, poi – anch’essa prevista nel disegno di legge – sembra riportare alla memoria quella proposta che nel 2007 era stata tacciata dall’allora Governo, come ‘errore da correggere rapidamente’. Un obbligo tanto massivo sarebbe, altresì, incontrollabile e inidoneo se consideriamo la globalità del fenomeno. Fake news giungerebbero da altri Stati, in considerazione della transnazionalità e delle dinamiche che caratterizzano la Rete.

Basti semplicemente considerare che sono proprio gli utenti, nella maggior parte dei casi, coloro che veicolano inconsapevolmente la disinformazione online.

A fronte della pluralità di teorizzazioni proposte per debellare il fenomeno fake – dai sistemi di warning accanto ad articoli sospetti, ai proposti controllori del web cui è affidato il vaglio dei contenuti, alle segnalazioni da parte degli utenti mediante strumenti predisposti dalle principali piattaforme social – l’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) mette in guardia: il rischio censorio è dietro l’angolo!

Nella Dichiarazione congiunta sulla libertà di espressione e sulle fake news (Joint Declaration On Freedom Of Expression And “Fake News”, Disinformation And Propaganda), sottoscritta lo scorso marzo, l’OSCE evidenzia che, sebbene la circolazione di notizie false rappresenti una minaccia seria e preoccupante per la libertà di informazione e le democrazie del mondo intero, le leggi che limitano la circolazione dei contenuti sul web – chiamando i gestori delle grandi piattaforme online a valutare la fondatezza dei presupposti per la rimozione dei contenuti pubblicati dagli utenti – rischiano di rievocare fenomeni di censura.

Già agli albori del Novecento, il politologo Walter Lippmann sosteneva che “coloro che fanno del proprio credo una legge più alta della verità, di fatto attaccano le fondamenta del nostro sistema costituzionale”. Ebbene, la linea di intervento delle autorità pubbliche deve, quindi, essere ispirata al bilanciamento dei valori fondamentali propri di una società democratica, pur tenendo conto delle specificità della Rete.

Nell’ambiente online, difficile da imbrigliare nelle maglie della strong regulation, un faro potrebbe essere costituito proprio da una rinnovata sinergia tra attività regolamentare ed esperienza autoregolamentare, che, unitamente a iniziative di media literacy, rappresentano l’approccio probabilmente più efficace.

Pensare, dunque, al pieno coinvolgimento dello IAP nella lotta alle fake news, come recentemente proposto dal Presidente dell’Associazione degli Utenti Pubblicitari – il quale ha ipotizzato di individuare nello IAP quell’organismo terzo cui l’utente potrebbe rivolgersi nel caso di informazioni denigratorie e infondate – è un possibile approccio se circoscritto a temi afferenti la comunicazione commerciale.

Certamente affidare tale compito allo IAP attenuerebbe le critiche avanzate nei confronti degli strumenti pensati per controllare il flusso delle informazioni in Internet. Ma la soluzione, basata su un sistema autodisciplinare, richiederebbe comunque la difficile adesione degli Over the Top.

Inoltre, essendo rimedio attivabile dall’interessato in caso di trasmissione di notizie contrarie a verità, lesive dell’onore e della reputazione, rappresenterebbe una sorta di diritto personale, differente rispetto alla diffusione indiscriminata di notizie false.

La tutela dovrebbe, quindi, estendersi anche rispetto a una posizione giuridica più ampia: l’interesse della collettività a un’informazione corretta, imparziale e veritiera.

Riprendendo le parole di Nelson Mandela “un popolo educato, illuminato e informato è una delle vie migliori per la promozione della democrazia” ed è ispirandoci a questo insegnamento che dobbiamo proseguire.

C) GIOCO CON VINCITE IN DENARO

Come noto, nel settore del gioco con vincite in denaro, l’ordinamento italiano, in linea con i principali Paesi europei, non pone un divieto assoluto per le comunicazioni commerciali a pagamento, ma detta specifiche regole al riguardo che concernono i contenuti e le modalità di diffusione – dal decreto Balduzzi del 2012 (d.l. n. 158/2012, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 189/2012) al recente intervento di cui alla Legge di stabilità per il 2016 (l. n. 208/2015).

In questo contesto – in cui sullo sfondo restano la competenza dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, dell’Agcm in materia di pratiche commerciali scorrette, e si affiancano i nuovi poteri sanzionatori nel settore della pubblicità sul gioco affidati all’AGCom – parallelamente, sul fronte dell’autoregolamentazione, si pone la positiva esperienza dello IAP che, con il Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, ha introdotto uno specifico articolo sulle comunicazioni commerciali concernenti il gioco a pagamento (art. 28 ter).

Ebbene, in tale scenario – in cui le nuove regole introdotte dalla Legge di stabilità per il 2016, in parte si sovrappongono a quelle dettate dal decreto Balduzzi e per altro verso riproducono i divieti già contenuti nel Codice di Autodisciplina Pubblicitaria – il ruolo positivo dell’autoregolamentazione appare evidente e addirittura più lungimirante di quello del legislatore, avendone anticipato l’intervento.

Un sistema, quello di autodisciplina, completo che prevede una tutela preventiva, ma anche successiva.

In tal senso, quindi, l’intervento preventivo dello IAP costituisce certamente uno strumento utile in termini di tutela dei consumatori. Non dimentichiamo che proprio le comunicazioni commerciali possono costituire il primo elemento di influenza nella decisione di gioco.

La ludopatia è ormai riconosciuta scientificamente come disturbo psicopatologico nell’ambito delle dipendenze commerciali e la comunicazione commerciale di un prodotto ‘pericoloso’, come il gioco d’azzardo, richiede cautele incisive che possano contrastare efficacemente la degenerazione del fenomeno.

Per cui, in tali settori, prevedere una tutela preventiva nei confronti del giocatore assume un’importanza strategica.

In termini concreti, il parere preventivo – cui l’inserzionista può rivolgersi per verificare la conformità del messaggio pubblicitario alle Linee di indirizzo, dettate dallo stesso Istituto, per la comunicazione commerciale dei giochi con vincita in denaro – attribuisce al messaggio una sorta di presunzione di correttezza, che. rafforza la tutela del consumatore, il quale gode di un controllo a monte sul contenuto pubblicitario; ma anche del professionista stesso, il quale vede consolidata la comunicazione commerciale dell’azienda.

E stimolando una sinergia coregolamentare, tale “bollino” potrebbe rappresentare – volendo riproporre una terminologia civilistica – quasi una prova privilegiata in termini di correttezza e buona fede nella sponsorizzazione del proprio prodotto o servizio.

Ritengo, pertanto, che un raccordo tra gli strumenti regolamentari e l’esperienza di autodisciplina sia certamente auspicabile. In tal modo, si potrebbe rafforzare la tutela e soprattutto la prevenzione di fenomeni patologici, consci che la corretta comunicazione commerciale è strumento utile per contrastare l’offerta non regolamentata.

Ma non solo. Come noto, la legge affida all’AGCom il ruolo di sanzionare gli operatori che non rispettano le norme della pubblicità sui giochi. Questa competenza, unita all’efficace strumento di controllo preventivo dello IAP, potrebbe realizzare più concretamente l’auspicata deflazione del contenzioso giudiziario: procedure rapide ed efficienti, a costo sostanzialmente nullo per il consumatore, non possono che essere incentivate.

È chiaro che i sistemi di autoregolamentazione non possono sostituire l’intervento delle autorità competenti nel settore, ma l’esperienza maturata da questi sistemi rappresenta certamente uno strumento di utile collaborazione per le istituzioni.

Una sinergia già conosciuta in altri Paesi europei. Durante un recente workshop organizzato in Autorità sul tema Autorità pubblica e Autodisciplina: gli strumenti di tutela nei ‘digital media’, il Presidente di Autocontrol, Istituto di autoregolazione pubblicitaria spagnolo – José Gomez Castallo – ci ha illustrato, con dovizia di particolari, il caso iberico, in cui il sistema di autodisciplina e quello di regolamentazione si pongono in raccordo tra loro al fine di verificare la correttezza del messaggio. In virtù di un accordo siglato nel giugno del 2012, le autorità statali e Autocontrol collaborano alla regolamentazione, verifica e controllo delle attività di gioco. Un esempio di coregolamentazione, che in Spagna ha consentito di raggiungere risultati significativi e che sicuramente costituisce una best practice da tener in considerazione.

A tali ipotesi sinergiche, ritengo, però, altrettanto e preliminarmente auspicabile promuovere un coordinamento tra le diverse autorità di settore. Non possiamo prescindere, infatti, prima di operare un raccordo tra attività regolamentare e autoregolamentare, dall’incertezza venutasi a creare a seguito della Legge di stabilità per il 2016.

Come noto, l’intervento normativo ha introdotto una nuova disciplina prevedendo l’irrigidimento dei presupposti per la diffusione legittima delle comunicazioni commerciali e il coinvolgimento dell’AGCom in un settore tradizionalmente riservato all’Agenzia delle dogane e dei monopoli, ma, al contempo, ha creato una sovrapposizione in termini, non solo di regole (che si sovrappongono a quelle del decreto Balduzzi), ma anche di competenze tra le autorità coinvolte (Agenzia delle dogane e dei monopoli, Agcm, e ora AGCom).

Possibili profili di criticità si riscontrano con riguardo alle interferenze tra i divieti contenutistici previsti dalla Legge di stabilità e le più ampie competenze attribuite alle varie Autorità.

Con riguardo all’AAMS, il dettato normativo – facendo espressamente salve le disposizioni contenute nel Decreto Balduzzi – sembra aver determinato un sistema sanzionatorio con competenze generiche, come già attribuite all’AAMS, e competenze specifiche, affidate all’AGCom, in materia di pubblicità audiovisiva, senza, però, prevedere un opportuno coordinamento.

Analoghe criticità si rinvengono con riguardo ai rapporti tra AGCom e Agcm, per cui sembra auspicabile chiarire le interferenze circa l’annoso problema delle pratiche commerciali scorrette. La normativa, attribuendo all’AGCom specifica competenza per quelle fattispecie rappresentate da pubblicità nel settore del gioco, pare accentuare interferenze tra disciplina generale in materia di pratiche commerciali scorrette e disciplina specifica sul gioco a pagamento.

Sul tema probabilmente la disciplina sulla pubblicità audiovisiva introdotta dalla Legge di stabilità, in ragione della sua specifica ratio (minimizzare i rischi psicologici e sociologici del gioco d’azzardo), può aggiungersi – e non sostituirsi – alla disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette contenuta nel Codice del consumo. Ne consegue che, almeno in astratto, vi sia spazio per l’applicabilità di entrambe le discipline.

Ben vengano, quindi, le regole, ma queste solo se correttamente perimetrate, sono in grado di garantire a ciascun’autorità coinvolta una lettura chiara dei propri ambiti di manovra: dobbiamo scongiurare il rischio di creare pericolose zone d’ombra!

Tralasciando gli aspetti puramente tecnici del dibattito, è evidente che, all’attribuzione delle nuove competenze in favore dell’Autorità, non sono, quindi, conseguite idonee misure coordinamento tra le regole esistenti. Mi sembra, dunque, auspicabile una nuova azione legislativa capace di operare un efficace coordinamento tra le istituzioni e rendere più effettiva la tutela cui le nuove norme appaiono preordinate.

Certamente, in attesa di un intervento che possa attenuare le ambiguità venutesi a creare, l’esperienza autodisciplinare, in sinergia con le autorità competenti nel settore, può costituire un esempio e valido strumento cui ispirarsi per fornire un apparato rimediale tempestivo ed efficace per il contrasto a fenomeni di gioco patologico. Pur nell’ambiguità delle competenze, non possiamo, infatti, rischiare di rimanere immobili dinanzi a tali fattispecie.

Non dimentichiamo, altresì, che la ludopatia, oltre a costituire un problema sociale, assume anche una rilevanza pubblicistica. Non a caso, ai danni sociali derivanti dal gioco incontrollato, conseguono a carico dello Stato una serie di criticità anche in termini economici: dalle spese sanitarie, volte alla cura dei soggetti affetti dal disturbo ludopatico a quelle di contrasto verso il gioco illegale.

Proprio in ragione di tali aspetti, negli ultimi anni, si sono succedute in Parlamento proposte di legge volte a proporre una regolamentazione disincentivante che introduca il divieto assoluto di pubblicità nel settore del gambling.

Certo un approccio integralmente proibizionista potrebbe, al contrario, incentivare il gioco illegale.

La storia insegna che un atteggiamento di chiusura radicale verso un problema non ne consente la risoluzione: l’esperienza statunitense degli anni ’20 del secolo scorso ce l’ha dimostrato. Al Volstead Act del 1919, con cui veniva fissato il divieto di produrre, vendere e trasportare alcolici, conseguirono una serie di aspetti negativi: dal contrabbando, al trasporto abusivo e la produzione illegale di liquori, all’incremento della criminalità.

Anche se la proposta intende solo bloccarne la sponsorizzazione, trasporre l’esperienza proibizionistica nel settore del gioco, pur se spinta da politiche informative e deterrenti, rischia di non riuscire a risolvere pienamente il problema della ludopatia e a non rispettare gli orientamenti europei in materia.

Lo stop alla pubblicità del gioco con vincite in denaro, già adottato con la Legge di stabilità per il 2016 e il relativo decreto attuativo, non implica un divieto assoluto, ma intende contemperare varie esigenze: da quelle dei media specializzati a quelle dei minori.

Del resto, anche in sede europea, dalla Raccomandazione della Commissione europea in materia di pubblicità sul gioco (2014/478/UE), non emerge l’idea di introdurre un divieto incondizionato.

Una pubblicità inadeguata, non ispirata a principi di correttezza e trasparenza, in luoghi e con mezzi non adatti, andrebbe sicuramente combattuta, ma forse senza necessariamente prevedere l’introduzione di un divieto assoluto. Mi sembra che proprio la corretta comunicazione commerciale consenta di veicolare la domanda verso un’offerta regolamentata e, quindi, non illecita del gioco.

In ogni caso, un intervento di armonizzazione normativa sembra non essere più procrastinabile. Sinora, l’intervento del legislatore è stato, da un lato caratterizzato da un’indecisione sulle modalità con cui contrastare il fenomeno del gioco patologico, dall’altro ha evidenziato un’eccessiva cautela nell’attuazione delle nuove norme.

Tenuto conto, poi, anche dell’online, in cui il proliferare di giochi a pagamento e forme di promozione sempre più invasive e aggressive hanno acutizzato il problema, le criticità si ampliano.

E vengo qui alla sua ulteriore domanda. Lei giustamente mi chiede se l’intervento dello IAP possa estendersi anche all’online. Ebbene, per rispondere a questo interrogativo sono necessarie alcune riflessioni più generali.

Lo scenario nel nostro Paese è complesso. A livello nazionale, infatti, il fenomeno dell’online resta ancora normativamente marginalizzato, se non escluso.

Ma è impossibile pensare di normare la pubblicità sul gioco ed escludere la Rete.

Il richiamato intervento legislativo del dicembre 2015 (Legge di stabilità per il 2016) non ha consentito di fare piena chiarezza sul tema. L’indeterminatezza normativa non ha permesso di applicare pacificamente le nuove disposizioni anche ai fenomeni della Rete, pur se, facendo salvo l’apparato legislativo previsto dal Decreto Balduzzi, sembrerebbe implicitamente confermare la necessità di regole anche per la pubblicità online.

Tale Decreto, infatti, aveva già previsto il divieto per i messaggi pubblicitari concernenti il gioco con vincite in denaro – nei quali si evidenzino l’incitamento al gioco, la presenza di minori, l’assenza di formule di avvertimento sul rischio di dipendenza – anche se diffusi “via internet” (art. 7, co. 4 del Decreto Balduzzi).

Sarebbe, quindi, irragionevole pensare che l’intervento legislativo, volto a incidere in modo più pressante sul fenomeno della pubblicità del gioco a pagamento, abbia consapevolmente omesso la Rete, terreno particolarmente fertile per lo sviluppo della ludopatia.

Certo il dato normativo, proprio in ragione di tale ambiguità, ha determinato un’ampia disputa dottrinale, prevedendo soluzioni tra loro speculari. Personalmente, nonostante le difficoltà interpretative, ritengo che l’applicazione all’online non possa essere esclusa.

La generica formulazione, adottata con riferimento al divieto (di cui all’art. 1, co. 938, Legge di stabilità) – che fa riferimento alla pubblicità senza ulteriori specificazioni – e l’espresso richiamo (da parte del co. 937 del medesimo articolo) alla disciplina comunitaria sul gioco online, sembrano poter consentire un’interpretazione estensiva del dato normativo. Il legislatore, poi, laddove abbia voluto limitare l’ambito di applicazione del nuovo apparato normativo sembra essere intervenuto espressamente: il co. 939 dell’art. 1, infatti, si rivolge specificamente alle trasmissioni radiofoniche e televisive; ciò a dimostrazione che gli altri commi richiamati intendano implicitamente introdurre una formulazione più generica.

Inoltre, anche la disciplina europea sembra escludere una lettura restrittiva. Seppur nella sua inorganicità, gli atti di soft law adottati a livello europeo hanno preso in considerazione il gioco online. Già la Risoluzione del Parlamento europeo del 10 settembre 2013 (2012/2322(INI)) aveva fornito indicazioni alla Commissione e agli Stati membri sulla disciplina pubblicitaria del gioco in Rete. La Raccomandazione della Commissione del 14 luglio 2014 (2014/478/UE), poi, ha anch’essa dettato una serie di principi a tutela dei consumatori nei servizi di gioco online.

In ragione di tali circostanze, ritengo che una corretta perimetrazione delle regole sia necessaria per evitare eventuali abusi e zone d’ombra, promuovendo anche la condivisione di standard di correttezza.

Nella Rete, ambiente caratterizzato da logiche virali difficili da controllare, l’appello alla correttezza e all’etica degli operatori del settore resta un importante strumento di tutela che necessita, però, anche di essere ancorato e supportato da una regolamentazione specifica.

Il sistema di autoregolamentazione, che sconta la sua struttura privatistica, non può estendersi ovviamente anche a quei soggetti non vincolati al Codice di Autodisciplina. In tal modo, si rischia che comunicazioni inidonee o scorrette possano travalicare i principi posti a tutela dell’utente.

Pertanto, se appare utile da un lato incentivare imprese e aziende ad aderire a sistemi di autodisciplina e dall’altro rinforzare l’endorsement pubblico mediante norme più chiare, altrettanto auspicabile è promuovere esperienze coregolamentari, che, all’esito di interventi chiarificatori in tema di competenze tra le diverse autorità competenti nel settore, possano garantire una più equa tutela in materia.

Superate, infatti, tali perplessità, la sinergia con l’autoregolamentazione può risultare più efficace ed estendersi auspicabilmente anche ai fenomeni online.

AGCOM

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